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Medici, corsi di formazione sponsorizzati dalle case farmaceutiche

Perché dovremmo interessarci degli Ecm? L’acronimo sta per Educazione medica continua e prevede l’acquisizione obbligatoria di crediti formativi da parte degli operatori sanitari (medici, infermieri, farmacisti, etc). La risposta è fin troppo semplice: oltre la metà dei corsi è sponsorizzata dalle industrie farmaceutiche. Cosa significa? Tre parole: conflitto di interessi. E noi cosa c’entriamo? Ne va di mezzo la nostra salute.

Il medico, soprattutto se è il relatore di turno (viaggio, hotel, cene spesate), è tentato a prescrivere più farmaci del previsto. A volte gli viene chiesto di farlo in cambio dei benefit. Insomma, non ci vuole un genio per capire che un sistema di formazione professionale non indipendente fa acqua da tutte le parti. Ne abbiamo già scritto su il Fatto Quotidiano più volte. I camici bianchi ritornano a casa pieni di gadget: biro, zainetti, porta pc, block notes, portachiavi, calendari, eccetera, con stampato il logo dell’azienda.

Chi se ne dovrebbe occupare? Il Ssn, le Asl, gli stessi medici versando una piccola quota. Oppure si potrebbe creare un fondo centralizzato a cui può contribuire anche Big Pharma, come suggerì Alfredo Pisacane (scomparso nel 2012), quando era responsabile Ecm dell’Università Federico II di Napoli, in un articolo uscito sul British medical journal (Bmj).

Ma dai piani alti nessuno ha intenzione di cambiare registro. La battaglia per una formazione senza sponsor (e quindi super partes) la porta avanti da anni il movimento dei “No grazie”, un’associazione di medici indipendenti.

Cosa succede Oltreoceano? Scrivono i “No Grazie”: “Negli Usa, nel 2011, il 75% dei providers di crediti Ecm ricevevano sostegno finanziario e tecnico dall’industria della salute, con Big Pharma in prima fila. Un recente articolo del Jama si chiede se questo sostegno presenti più problemi per l’implicito conflitto d’interessi o per il bias, cioè la sistematica inaccuratezza delle informazioni, che vi è associato. Gli autori pensano che il bias abbia effetti più gravi e che prevenirlo sia perciò più importante che prevenire il conflitto d’interessi”. Di male in peggio.

Ecco cosa mi hanno raccontato dei farmacisti della Lombardia, che preferiscono rimanere anonimi. “Da due anni partecipiamo al corso di formazione organizzato da una ditta di farmaci generici. Dura mezza giornata e vale 50 crediti, cioè il totale che dobbiamo ottenere in un anno. Fa gola, no? In 4/5 ore ce ne liberiamo. In cambio però l’azienda ci chiede di somministrare una quarantina di test da venti domande ciascuno ai nostri clienti.

Il primo riguardava il consumo di ansiolitici. Il secondo era sulla ludopatia. Impossibile farlo. Per due ragioni: in farmacia c’è sempre la coda e noi non abbiamo tempo da perdere. Se dovessimo chiedere alle persone 10 minuti per compilare il questionario non ci sarebbe più spazio. E poi c’è l’imbarazzo nostro e del cliente, che vuole privacy. Non è un supermercato la farmacia. C’è riservatezza, a volte dolore. Rischiamo di allontanare la gente. Così va a finire che ai test rispondiamo noi, prendendo spunto da quello che ci raccontano i pazienti. Molti colleghi fanno così”.

fonte:www.ilfattoquotidiano.it

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